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Fine di un’era: il trust non ha fatto bene a nessuno

Ventisei luglio 2011, 31 dicembre 2021. Un decennio e cinque mesi dopo, tramonta definitivamente l’era Claudio Lotito-Marco Mezzaroma. E lo fa nel peggior modo possibile. Come una liberazione. Salerno sportiva esulta e festeggia per il passaggio di mano last-minute della Salernitana nelle ambiziose mani dell’imprenditore napoletano Danilo Iervolino. Dal neo patron i tifosi granata si aspettano un reset generale e l’inizio di nuova era. A prescindere dalla categoria. I risultati sul campo saranno logica conseguenza del lavoro dietro la scrivania. Ma non saranno di certo l’unico focus della tifoseria. Cresciuta, maturata e scottata dalle recenti esperienze. E capace di valutazioni non più superficialmente ed esclusivamente legate ai risultati.

Incontestabili quelli conquistati da Claudio Lotito e Marco Mezzaroma. Ciò malgrado, il duo capitolino è riuscito a far breccia solo in parte in questi anni nel cuore della torcida dell’Ippocampo. Un rapporto altalenante, fatto di odio ed amore condizionato solo in parte dai pur innegabili meriti sportivi dei due imprenditori romani, capaci di far rinascere la Salernitana dalle ceneri del secondo fallimento in pochi anni, di ridarle solidità, stabilità e credibilità nel panorama professionistico italiano. Ma anche di influenzarla col fardello della multiproprietà che s’è rivelato tutt’altro che un “falso problema”.

A pochi rintocchi della mezzanotte, la prima del 2022, Lotito e Mezzaroma sono usciti di scena. Lo avevano fatto ufficialmente il 7 luglio, cedendo sulla carta al trust. Ma restandone comunque i disponenti, in attesa di vendita. L’uscita di scena non rappresenta per loro una vittoria. Da un punto di vista sportivo lasciano una squadra ultima in classifica e con possibilità di salvezza forse già compromesse. Ma anche da un’ottica imprenditoriale non gli va meglio, perché la cifra che realizzeranno è infinitamente inferiore alle loro aspettative e al prezzo che avrebbero potuto ricavare in estate. C’erano realmente le offerte concrete a giugno? Di proclami ne sono stati fatti, ma occorrerebbe sapere la verità… vera. La scelta di affidarsi al trust s’è rivelata comunque per loro fallimentare per le tempistiche dell’operazione cessione, concretizzatasi sul gong e solo dopo l’aut aut del presidente Figc Gravina. Idem per gli effetti sulla gestione sportiva. La partenza ad handicap, il mercato condizionato dall’incertezza sulla ritardata iscrizione, l’arrivo in ritardo dei rinforzi che hanno faticato più del dovuto a raggiungere il top della forma ed integrarsi nella nuova realtà. Processo inevitabilmente rallentato dai risultati e dalla scelta – inesorabilmente bocciata dal campo – di esonerare Castori, ma soprattutto di affidarsi a Colantuono.

Dieci milioni a fronte degli ottanta inizialmente richiesti. Una cifra fuori mercato per una neopromossa senza un centro sportivo né altre immobilizzazioni materiali di proprietà e con un parco atleti dal valore limitato. Che Lotito non volesse privarsi a cuor leggero della Salernitana era noto anche alle pietre ed a tutti coloro i quali, già negli anni passati, s’erano timidamente affacciati per chiedere informazioni sul club granata. Ma più che una scelta di cuore, quella di Sor Claudio s’è rivelato un clamoroso autogol strategico dettato da un’ossessiva visione commerciale che spesso sfocia in cupidigia. La Salernitana doveva essere venduta, senza se e senza ma. Lo dicono le stesse NOIF che Lotito – da consigliere federale – ha avallato. E, da imprenditore scafato e navigato,  avrebbe dovuto intuire di non avere per una volta il coltello dalla parte del manico e perorare la causa della cessione immediata nel momento in cui il “bene” – la società – aveva raggiunto l’apice del suo valore commerciale. Vale a dire nell’immediatezza della promozione in Serie A, con tutta l’estate disponibile per il nuovo acquirente per delineare strategie sportive. Sarebbe bastata una sorta di procedura d’incanto con un prezzo minimo d’acquisto per fare in fretta e dare il tempo alla nuova proprietà di costruire una squadra degna della categoria.

Invece s’è scelto di temporeggiare e far melina, con la colpevole compiacenza della Federazione e nel totale lassismo delle istituzioni e di parte della tifoseria, presentando ai nastri di partenza della Serie A una squadra inadeguata sotto il profilo tecnico e dell’esperienza, affidata ad un management – Marchetti e Fabiani –  in ogni caso nominato dall’uscente proprietà. Soltanto l’ultimatum di Gravina ha scosso le coscienze e smosso le acque.

Meglio all’ultimo minuto che mai, verrebbe da dire. Resta il rimpianto per una stagione – quella del ritorno in Serie A – che con scelte diverse poteva prendere ben altra piega. La Salernitana forse retrocederà, forse sarebbe retrocessa ugualmente anche con una nuova proprietà in estate. Ma lo avrebbe fatto in altro modo. Soprattutto agli occhi dei propri tifosi.

Già, i tifosi. Gli unici vincitori. Al netto di qualche sporadica e non rappresentativa uscita a vuoto, Salerno in questi mesi ha mostrato all’Italia calcistica (e non solo) il proprio volto migliore. Quello passionale, romantico, follemente innamorato. Quello del “che vinca o che perda”. Quello orgoglioso, di chi è pronto a ripartire da zero pur di riprendersi autonomia e libertà. Giocatori, allenatori, finanche presidenti passano. La passione della propria gente resta per sempre e si tramanda di padre in figlio. Ed è il bene più prezioso. Ma su cui fortunatamente nessuno può e potrà mai vantare proprietà giuridiche.

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