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#NonTiScordarDiMe. Ferrier, fuga da Verona e le difficoltà con la lingua: “Dott. Palumbo mi faceva da interprete”

“Tornerà Ferrier”, uno slogan tra il serio e il faceto arrivato fino in Olanda. Anche il diretto interessato, dopo oltre vent’anni, ricorda quella frase storica che ancora oggi, di tanto in tanto, torna di moda tra i tifosi della Salernitana. A portare in Italia Maickel Ferrier, olandese dotato di una imponente fisicità, fu l’Hellas Verona, i cui tifosi “costrinsero” giocatore e club a tornare sui rispettivi passi. Era il 28 aprile del 1996 quando i supporter scaligeri, in occasione del derby col Chievo, esposero in curva manichino nero con la maglia gialloblu e la scritta “negro go away” con tanto di cappio al collo.

Un manichino sorretto da due uomini incappucciati, quasi a ricordare gli orrori del Ku Klux Klan, e con i cori che invitavano l’allora patron Alberto Mazzi ad assumere Ferrier per pulire lo stadio o lavorare in cantiere. Un episodio più che censurabile, che fece scandalo e inevitabilmente portò all’annullamento dell’accordo che avrebbe dovuto portare Ferrier a vestire la maglia dei veneti nella successiva stagione in Serie A.

Aveva poco più di 19 anni quando Mino Raiola (agente anche di Louhenapessy) lo portò a Salerno, dove ad accoglierlo ci fu il presidente Aliberti: “Tutto sommato fu una esperienza positiva, avevo un buon rapporto con i compagni e con i tifosi – ha ricordato l’olandese ai nostri microfoni – A Salerno ho conosciuto tanti amici anche se non sono in contatto con nessuno di loro. Avevo un ottimo rapporto con Phil Masinga, anche per via della lingua, era l’unico a capirmi (ride ndr) dato che quasi nessuno parlava inglese all’epoca”. Impossibile non ricordare Masinga, scomparso poco più di un anno fa: “Era una persona davvero fantastica oltre che un grandissimo giocatore. Avevo un rapporto fantastico con lui e anche con la sua famiglia”.

Come per tanti altri stranieri, Ferrier trovò non poche difficoltà ad ambientarsi in Italia: “Quasi nessuno dello staff tecnico parlava inglese, ricordo che mi aiutava particolarmente il medico Pino Palumbo, il quale traduceva per me aiutandomi moltissimo. Il dottore era davvero gentile con me, ricordo con affetto anche il preparatore (Stefano Marrone ndr)”.

Al pari del connazionale Louhenapessy, Ferrier trovò particolarmente duri i protocolli di allenamento italiani: “Non fu facile, sapevo cosa potevo dare in campo, lo avevo già fatto in Olanda. Ero un grande talento ma probabilmente soffrì le differenze tra il calcio olandese e quello italiano, in particolar modo negli allenamenti dove veniva dato molto spazio sia alla tattica che alla parte atletica. In Olanda invece ci allenavamo per un’ora e mezza solo con il pallone”.

Tra le note liete di quell’esperienza con l’ippocampo sul petto Ferrier ricorda il rapporto con la gente: “C’era una grande differenza con i tifosi del Verona, quando li incontravo per strada erano sempre gentili con me, probabilmente non gradirono quello che i tifosi veronesi fecero nei miei confronti, del resto so che c’è una forte rivalità”.

Ferrier non si ambientò e fu ceduto in prestito al Catania. Poi lasciò la Salernitana, e l’Italia, nel 1998 chiudendo l’esperienza in granata con soli cinque gettoni di presenza, il primo proprio al “Bentegodi” contro il Chievo di Malesani in una gara valevole per il primo turno di Coppa Italia (era il 24 agosto del 1996), prendendo il posto di Tudisco a 12’ dalla fine. Oggi Ferrier, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, vive in Olanda, ha abbandonato il settore della ristorazione e sogna di tornare nel mondo del calcio: “Avevo diversi ristoranti ma li ho venduti, ora voglio occuparmi di giovani, organizzando tornei e campi estivi per giovani calciatori” .

 

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