Leonardo Bardeggia fu uno dei tanti acquisti esotici in casa Salernitana della gestione Antonio Lombardi. Veniva dalla cantera del River Plate insieme all’altro argentino, Morete. Era il gennaio 2007, nessuno dei due riuscì a imporsi in un anno calcistico – va detto – tutt’altro che memorabile per la squadra intera. Dopo Salerno, una triennale esperienza al Cassino e poi la decisione improvvisa di smettere con il calcio nel 2010: oggi ha 34 anni ed è titolare di un negozio di abbigliamento in patria. A casa conserva ancora la maglia granata, che ha esposto in una teca (foto in alto). La sua è una storia di difficoltà, di cadute, di rinascita e di coraggio. Insomma, anche senza calcio si può essere felici.
“A Salerno fu la mia prima esperienza fuori dall’Argentina e in un campionato senior. Avevo vent’anni, mi si mescolavano tante sensazioni nella testa. Probabilmente non avevo i piedi ben piantati per terra e non mi rendevo conto di dove fossi. Forse sottovalutai l’importanza dell’occasione che mi si presentava. Va detto anche che non conoscevo bene la lingua e mi trovavo in un contesto completamente nuovo e diverso. All’inizio non è stato facile integrarmi, ci ho messo un po’, circa 4 mesi ad adattarmi al gioco italiano. Ma la città mi diede una mano ed è proprio la gente ad avermi lasciato i ricordi più belli della mia breve carriera”, esordisce l’ex calciatore ai nostri taccuini. Fu prelevato nel mercato di gennaio, collezionò solo una presenza alla terzultima di campionato di Serie C, contro il Manfredonia. “Arrivai con Emanuel Morete, qualcosa evidentemente non funzionò. Debuttai col Manfredonia e solo a quel punto della stagione avevo preso più confidenza con il calcio italiano e con i compagni. Però la stagione era praticamente finita. – racconta Bardeggia – Feci il ritiro precampionato a Roccaporena l’anno successivo e mi sentivo bene, segnai 5 gol in un’amichevole e conservo ancora il ritaglio di giornale che ne parla. Purtroppo però eravamo in tanti e l’allenatore (Agostinelli, nda) dava fiducia ai più esperti, anche se io iniziavo a sentirmi importante”. Del resto, la società stava costruendo la squadra che avrebbe poi vinto il campionato, conquistando la promozione in B. “Da un giorno all’altro dissero a me e a Morete che avremmo dovuto trasferirci al Cassino. Non avevamo idea di dove saremmo andati e fu traumatico lasciare la Salernitana proprio nel momento in cui stavamo iniziando a familiarizzare col contesto, lontani da famiglia, amici e anche una figura che potesse starci vicino dal punto di vista psicologico. – ricorda ancora l’argentino – Nel viaggio per Cassino mi sentii male, vomitai: era un colpo troppo grande. Nella mia nuova squadra crollarono definitivamente tutti i desideri e le aspettative che avevo. Giocai bene le prime due-tre partite, poi ebbi qualche passaggio a vuoto. Dal punto di vista mentale mi abbattevo subito e nessuno mi aiutò”. Riuscì comunque a collezionare una sessantina di partite e quattro gol in tre stagioni con la casacca dei laziali, all’epoca di proprietà della famiglia Murolo, la stessa che aveva investito nella Salernitana in società con Lombardi attraverso Vittorio. Segnò il suo primo gol italiano nel febbraio 2008 in un Cassino-Melfi 2-3. “Però avevo un malessere, iniziai progressivamente a non sentirmi più a mio agio all’interno di un campo da gioco. Non sono mai più riuscito a rialzarmi, ero come disarmato e iniziai a pensare di lasciare il calcio, nonostante il mio procuratore provasse a propormi delle soluzioni. Quando tornai in Argentina per le vacanze, mi tolsi un grosso peso: decisi di smettere”, dice. Era il 2010, dieci anni fa.
“Vissi 3-4 mesi difficili da qual momento in poi, avevo la testa vuota, non riuscivo a far nulla. Poi ho iniziato a lavorare con i miei genitori che avevano dei negozi di abbigliamento. Piano piano mi sono ripreso, iniziando una nuova vita: abbiamo trasformato l’attività, l’abbiamo ingrandita. Oltre a ciò, ho aperto anche un ristorante a Cipolletti, nel nord della Patagonia, un posto bellissimo. L’ho avuto per tre anni. Poi sono tornato all’abbigliamento”, continua Bardeggia, che ha forse qualche rimpianto ma anche la saggezza necessaria per far emergere le cose positive di quegli unici 90′ in maglia granata: “Quel giorno contro il Manfredonia mi sono sentito giocatore vero. Confesso che prima della gara avevo paura, non sapevo cosa mi sarebbe accaduto in mezzo al campo. Mi diedero anche la maglia numero 10, una grande emozione per qualsiasi giocatore. Però poi l’ansia scomparve, dopo aver rotto il ghiaccio. Credo di aver disputato una buona partita, sfiorando anche una volta il gol. Nonostante non avessi nelle gambe il ritmo partita, ho ancora oggi un ricordo bellissimo di quel giorno”. Era il 6 maggio 2007, prima e ultima all’Arechi per lui. “Di Salerno ricordo la mozzarella di bufala, buonissima. In Argentina abbiamo un ottimo prosciutto, ma quella proprio manca. Si mangiava benissimo in generale. – aggiunge Bardeggia – Ricordo il lungomare, il corso, tutto il centro della città. Due anni fa ci sono anche tornato insieme alla mia fidanzata, ripercorrendo anche la Costiera Amalfitana dove spesso andavo a fare passeggiate nei lunedì liberi, quando giocavo in granata. Sì, è stato davvero un privilegio giocare a Salerno”.
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