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Superpippo al Festival dello Sport: “Salerno è calcio che sognavo da bimbo, ora poche parole e tanti fatti”

Il momento giusto“. Come il titolo del suo libro, scritto con G.B. Olivero ed al centro dell’intervento odierno al Festival dello Sport, Pippo Inzaghi ritiene che sia questo l’attimo più favorevole per tornare in pista e farlo in un ambiente che lo carica. L’ex bomber ha parlato a 360 gradi della sua carriera da calciatore, degli inizi, della sua famiglia e poi del suo presente da allenatore ma anche del terremoto scommesse: “Sono molto triste per quello che sta succedendo in Italia”.

San Nicolò, “la buca”

Il luogo dove i fratelli Inzaghi hanno mosso i primissimi passi da bambini vicino Piacenza. “Quando torno a casa e guardo la piazza tra la scuola elementare e la media dove tutti i giorni andavamo con Simone giocavamo prima 5 contro 5, poi chi arrivava entrava finché non si capiva più niente. Siamo stati una generazione fortunata. – ha raccontato il nuovo trainer granata – Il nostro passatempo preferito era andare lì tutti i pomeriggi a giocare fin quando a sera i genitori ci venivano a chiamare. I giovani d’oggi non li invidio, abbiamo visto anche purtroppo quel che sta succedendo, hanno tante distrazioni. La famiglia ha fatto la differenza. Una volta sono stato in una piazza e ho visto un cartello con su scritto “vietato giocare a calcio”. Mi viene da ridere. La tecnica, l’equilibrio lo allenavamo in piazza. Mettevamo le borse di scuola per fare le porte, facevi 5-6 ore di tecnica individuale. A volta noi allenatori facciamo esercitazioni senza casacche, lì le casacche non c’erano, sceglievi i tuoi compagni: dovevi sviluppare mentalmente abilità cognitive per ricordarti chi stava con te. Siamo stati fortunati. Se io e Simone siamo così è merito dei miei genitori che ci hanno insegnato il giusto valore delle cose, ci hanno fatto studiare, si sono fidati di noi perché abbiamo dimostrato che eravamo ragazzi perbene. Ci hanno obbligati a studiare. Son ragioniere, mi è servito per imparare tante cose ma il diploma è l’unica cosa che mi hanno chiesto, poi mi hanno fatto fare quello che amavo. Sono stati fondamentali. Andavamo in vacanza, andavamo a funghi e a pesca. Spero di portare presto mio figlio in mezzo alla natura. Sono cose che si sono un po’ perse ma che secondo me hanno fatto la differenza. Simone è sempre stato più bravo in tutto di me, però io non mollavo un centimetro. Giocando in mansarda con mio fratello avevamo un camino che era una porta, l’altra era quella del bagno, giocavamo uno contro uno e mi ruppi il quinto metatarso ed ero nelle giovanili del Piacenza. Dovetti spiegarglielo. Usavamo il garage che diventava una porta, trovavamo un amico che faceva i cross. Quando sbagliavi il tiro colpivamo finestre dei vicini e giustamente si lamentavano. Ora sfido a trovare qualche ragazzo che gioca nel cortile con la porta del garage, a parte mio figlio. Non lo faccio perché spero faccia quanto abbiamo fatto io e mio fratello ma perché il calcio lo porterà a stare con gli altri. Sarò contento se farà sport. Adoro anche il tennis,  se tornassi indietro mi piacerebbe anche fare quello. Lo sport aggrega, fa rispettare le regole, stare un po’ meno sui computer e su Instagram fa bene”.

Gli inizi

La provincia da calciatore è stato il suo primo approccio col pallone dei grandi: “Prima di arrivare dove sono arrivato ho dovuto fare tantissima gavetta, mi sono dovuto guadagnato tutto. Mi sono sempre fidato dei miei genitori. Leggendo oggi quel che sta succedendo penso abbia fatto la differenza. Prima di arrivare alla Juve a 24 anni ho dovuto sgobbare. Ora è troppo facile, dopo 5 partite i giovani vengono esaltati, gli vengono dati ingaggi che non sono in grado di gestire e diventa tutto più complicato. A Leffe avevo 19 anni, potevo stare a casa mia e invece sono andato lì con una sola macchina che ci dividevamo e un solo appartamento in tre. Per 4 mesi non ho mai giocato ma non ho mai mollato, non ho mai pensato di tornare a casa. Ci credevo ciecamente, pensavo che i sacrifici mi avrebbero portato lontano. E poi i sacrifici sono alzarsi alle 5 di mattina per andare a lavorare. Sapevo che facendo così non avrei dovuto rimproverarmi nulla ed è stata la chiave del successo della mia carriera. A 23 anni ho vinto la classifica cannonieri all’Atalanta. Quando torno lì è come se ci avessi giocato vent’anni. Ebbi la fortuna di giocare 4 anni nella Juve e poi 12 nel Milan. Per un giocatore è stato il massimo. Zidane con Kakà e Rui Costa sono stati il meglio per me. Zinedine aveva un’eleganza pazzesca, ho fatto tantissimi gol ma la fortuna è stata giocare con questi grandi campioni”.

I segreti

“Da bambino speravo di fare una bella carriera, non avrei mai immaginato però di arrivare a questi livelli. Bisogna fare di tutto: curare i dettagli anche dei tacchetti, mangiare bene, riposarsi il giusto per poter sognare. Se non fai nulla per raggiungere il sogno non si realizza. Il destino mi ha dato una mano, per fortuna fino a 30 anni non ho avuto infortuni che mi hanno impedito di rendere al meglio. – ha raccontato ancora Superpippo – Quando ho fatto il primo gol in Europa era un sogno arrivare ai  70 di Muller, speravo con tutto me stesso di poter raggiungere quel sogno, quella sera col Real Madrid quando ho raggiunto il record avevo 37 anni, rimarrà nel cuore di tutti, a 34 anni si dice che un giocatore è finito e io feci 5 gol nelle tre finali e penso sia un record storico. Stare ancora così bene a quell’età significava essersi sempre comportato bene. Andai in panchina con due maglie celebrative, tutti mi dicevano che ero pazzo, sono entrato e ho fatto 2 gol. La gente impazzì, è un’emozione che non dimenticherò mai”. Inzaghi è tornato sulle sua ultima gara da professionista, un Milan-Novara nel 2013: “Ci è voluto qualche mese per accettare il fatto di dover smettere. Per un campione il giorno della fine è molto difficile e tante volte non lo capiamo, pensavo di stare bene nonostante avessi 39 anni. Dopo l’ultimo gol e quella partita, feci gol sotto la mia curva e fui premiato da Galliano per la 300ma partita, riflettendoci bene ho pensato che miglior fine non poteva esserci. Che fosse l’ultima nel Milan l’avevo capito, se avessi pensato che era l’ultima di calcio giocato l’avrei vissuta peggio. fu una giornata bellissima. Mi ero rotto il crociato a 37 anni, ci ho creduto, mi sono rimboccato le maniche. Avrei potuto mollare e ce l’ho fatta. Dopo la fine della carriera da  giocatore iniziai ad allenare gli allievi, vedevo che anche mio fratello era felice allenando. Quei mesi mi hanno dato la possibilità di metabolizzare il tutto. Quando sono tornato a fare qualche partita mi viene male, quando gioco vedo che fisicamente ci sto. Quando sono andato ad allenare il Venezia quando mancava uno nelle partitelle entravo e facevo 5 gol“.

La passione di Superpippo

“Faccio ancora le scelte per passione, a volte bisognerebbe ragionarle di più soprattutto quando alleni ma da allenatore alla lunga pagherà perché da calciatore ha pagato. Dal calcio ho avuto già tutto, potrei andare in tv e fare l’opinionista e non avere stress ma quello che mi ha spinto ad allenare è stato dare ai miei giocatori quello che sono stato io: non ho tecnica di Ronaldinho, né il fisico di Ibra ma ho fatto tanti record perché al di là delle sensazioni in area che non si possono insegnare che madre natura mi ha dato, posso insegnare come si lavora fuori dal campo, in un gruppo, cosa fare per dare il meglio. Lavoro difficile ma bellissimo, quando inizi a farlo ti prende dentro. Dal Milan ho imparato tanto, era un anno difficile quando ho allenato la prima squadra, tenevo tantissimo a dare una mano. Quell’anno mi ha dato la forza di fare questo lavoro, mi piace. Spero di divertirmi, la categoria mi interessa poco. Alcuni non hanno capito le mie scelte: un allenatore impara ogni anno che allena, quest’anno pensavo di aggiornarmi e stare fermo per un po’, per fortuna non è successo. Tornare in panchina è molto gratificante e cercherò di farlo al meglio”.

Particolarmente importante per lui è stata l’esperienza in Laguna: “Sono andato in C, a Venezia avevo un direttore, Perinetti, di cui mi fidavo. La società voleva fare le cose in grande, abbiamo vinto subito, l’anno dopo ho conosciuto Angela. Mi ha conquistato la sua serietà, faceva l’architetto e aveva tante somiglianze con mia mamma, la cosa di lavorare e far da mangiare al proprio compagno… ho pensato che sarebbe stata la donna ideale e la mamma giusta, abbiamo due bambini bellissimi. Edoardo sta per compiere due anni, ora c’è stato un distacco perché sono andato a Salerno. Quando arrivi a casa e trovi i figli e le persone che ami ti dà serenità per lavorare al meglio”.

Il presente

Filippo Inzaghi non vede l’ora di esordire in granata. “È una piazza calda come l’anno scorso a Reggio. In tanti mi dicevano “chi te lo fa fare” ma io guardo ancora le curve. Non mi svegliate, non voglio guardare altro: il calcio è questo, è quello che sognavo da bambino, vedere che la gente anche di altre tifoserie ti apprezza è gratificante. – ha detto – A Salerno la squadra è forte, il presidente ha grande entusiasmo, De Sanctis ha giocato con me. Quando ho avuto queste combo sono sempre arrivati i risultati. Siamo penultimi ma la squadra può giocarsela, ha una delle tifoserie più bella d’Italia: i nostri supporters vanno dappertutto e sono trascinanti, dobbiamo essere bravi noi a fare poche parole e tanti fatti per trascinarli con noi verso il nostro traguardo. Gli ultimi due anni sono stati complicati: essere esonerato da terzo in classifica a Brescia e vedere fallire la società alla Reggina è dura. È una ferita aperta, sono cose che devono arricchirmi. A Salerno ho trovato tutto quello che cercavo, sono partito subito con grande entusiasmo, credo nella squadra anche se ci sarà tanto lavoro da fare, alla fine i risultati arriveranno. Ultima di campionato c’è Milan-Salernitana, non sono mai riuscito a tornare da avversario a San Siro. Decidere lo scudetto con mio fratello a distanza? Me la sogno più serena per tutti”.

Il mister svela poi un aneddoto delle sue prime chiacchierate col patron: “L’altra mattina in treno parlavo con Iervolino, mi ha chiesto subito di insegnare agli attaccanti le mie caratteristiche. Al di là dei tempi di gioco che non si possono insegnare, io dalla palla mi allontanavo per nascondermi e poi riattaccare. Sono sensazioni di gioco difficili da spiegare. Bisogna conoscere i propri compagni, è la prima cosa che ho detto ai miei alla Salernitana. – confessa Inzaghi – Sapevo quando Serginho crossava, Rui Costa o Kakà davano la palla, conoscevo Cafu, Pancaro, Pirlo che mi metteva palla sopra la linea avrei dovuto fare movimento incontro per non andare in fuorigioco. Conoscere il compagno è stata una mia ricerca maniacale. devi capire con chi giochi e sfruttare le loro abilità, non avevo bisogno che il crossatore toccasse troppa palla, attaccavo il primo palo, cercavo di spiegarglielo”.

La riconoscenza per i tifosi

“Da bambino con mio padre andavamo a vedere il Piacenza in Serie C e chiedevamo gli autografi. Ero contento. Nella mia carriera ho cercato di non rifiutare mai di fare un autografo, alcune volte nella confusione qualcuno è rimasto deluso. So cosa vuol dire un nostro autografo, io sono stato tifoso. Se sono arrabbiato preferisco stare in casa e non andare in giro perché non voglio rifiutarmi. Quando perdo una partita e sono triste vado a fare un giro in centro, vedo l’affetto della gente e riparto ancora più forte”, ha aggiunto il nuovo allenatore granata prima di chiudere con un appello: “Cerchiamo di dare fiducia agli italiani, siamo una scuola importante, allenatori e giocatori. Spero non debbano andare in giro in Europa per farsi apprezzare. Abbiamo visto la nazionale u20 campione d’Europa, il mondiale perso in finale con l’u19, ho seguito tutte quelle partite e dobbiamo dare fiducia ai ragazzi bravi”.

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