Ieri sera era presente alla cena di gala del Colosseo Granata, insieme a tanti volti noti della storia della Salernitana. Si avvicina il Centenario, si respira aria di storia granata e Alessandro Del Grosso ne è stato fiero protagonista. Il 23 maggio 1999 era titolare in campo, in quella che è stata l’ultima partita dell’Ippocampo in Serie A. Ai nostri microfoni, l’ex terzino, ora allenatore del Lanciano, apre il cassetto dei ricordi, a partire proprio dalle sensazioni prima della sfida del Garilli: “Durante la settimana eravamo positivi, molto ottimisti sulle possibilità di salvarci. Poi in campo c’è stato un qualcosa che non quadrava, qualcosa che non è avvenuto. Io, Fresi e Gattuso prendemmo, al termine della gara, delle squalifiche di una o due giornate perché non ci è andato giù quel mancato fischio da parte del direttore di gara sul rigore netto ai danni di Tedesco, con l’arbitro che girò la testa dall’altra parte come se non fosse lì, non fosse suo compito rispettare quello che succede in campo. Eravamo convinti di salvarci. Certo, eravamo una neopromossa, soprattutto all’inizio abbiamo commesso qualche errore di inesperienza, ma esprimevamo un calcio migliore di squadre che si giocavano un posto nell’odierna Europa League. Indimenticabile, ad esempio l’esonero di Gigi Simoni sulla panchina dell’Inter dopo una vittoria sofferta contro la Salernitana decisa da una rete di Zanetti. Si poteva aprire un ciclo, peccato”.
Poi, il ricordo si fa più amaro, soprattutto parlando di ciò che è successo il giorno dopo. A distanza di vent’anni un dolore che Salerno non dimenticherà mai: “Quello che è successo fuori, la mattina dopo, copre tutto quello che è successo in campo, la delusione per un risultato sportivo non ottenuto. Subentra il fattore umano, quello è sicuramente più importante di una partita di calcio. Si possono vincere e perdere campionati. Passa tutto in secondo piano quando accade una tragedia che non doveva succedere. Quattro ragazzi che erano saliti a Piacenza per tifare noi e non sono più tornati. Indelebile, ci ha segnato tutti. Specialmente chi era sul treno e l’ha vissuta in prima persona”.
Del Grosso è nativo di Ardea, città con cui ha ancora oggi un forte legame. A Marina di Ardea la Salernitana ha preparato il ritiro verso l’ultima gara giocata in campionato, quella contro il Pescara, terminata con una sconfitta per 2-0: “So bene che la Salernitana si sia allenata lì, sono andati anche dei miei cugini a vederla. Quando si va in ritiro, può essere bello da una parte, dall’altra no. La prima domanda che mi pongo è perché si fa il ritiro? Era sicuramente un modo per concentrare i giocatori, per fare gruppo e permettere la conoscenza degli stessi al nuovo allenatore. Ma la Salernitana non doveva arrivare in quella situazione, soprattutto se nelle ultime cinque gare non è riuscita a portare a casa un punto che sarebbe valso la salvezza”.
Ora tutto si sposta dal rettangolo di gioco all’aula dei tribunali. Del Grosso ha vissuto una situazione simile proprio nel 2002/2003 con il caso Catania, compagine in cui militava: “Dovremmo ridurre tutto ciò che facciamo in quello che avviene in campo. Quando le cose si spostano fuori dal rettangolo di gioco è sempre una sconfitta. Da persona che ha già vissuto una situazione simile posso dire che i calciatori la vivono con ansia, forte trepidazione. Da una parte c’è chi pensa di giocare per fare i playout, dall’altra chi ha la speranza di mantenere la categoria nonostante sia retrocesso sul campo. La giustizia sportiva spesso si contraddice. Da non esperto in materia – afferma l’attuale tecnico del Lanciano – su queste argomentazioni dico una cosa magari banale: lo sport deve essere giudicato dalla giustizia sportiva con criteri precisi, quella ordinaria deve fare il suo percorso su tematiche apposite. La giustizia ordinaria ha tempi lunghi che cozzano con quella sportiva che in due settimane- venti giorni deve dare un verdetto. In un mese- quarantacinque giorni deve decidere nel bene o nel male. E stop. Invece, con quell’ordinaria, si parla di mesi, anni. E non va bene così. In altre parti, del resto, non è così: si accetta il verdetto del campo e quello della giustizia sportiva. In Italia c’è questa scappatoia, dovrebbero toglierla!”.
Inevitabile una battuta sull’attualità in casa granata: “A Salerno la gente si è allontanata per tanti motivi. Ma allo stesso tempo basta poco per riaccendere tutto. E come quando uno spegne il fuoco, c’è la brace sotto. Non è spenta, è ferma. Basta che si metta un pezzo di legno sopra, in questo caso metaforicamente delle idee, dei progetti. E vedrete come risponde presente Salerno”.
Si avvicina il Centenario e Del Grosso, insieme a tanti volti granata, prenderà parte alla gara sulla spiaggia di Santa Teresa del 20 giugno: “La cosa che più mi fa piacere è quando qualcuno ti ricorda per ciò che hai fatto da uomo e poi da atleta. Di giocatori Salerno ne avrà tanti, è l’uomo che rimane. Il giocatore può avere una giornata storta, ma la gente vede sempre l’uomo e se gli atleti pensassero a questo e non ad altre cose potranno anche commettere un grave errore, ma il pubblico farà sempre sentire loro vicinanza, applaudendoli. Ora, invece, tutti si comportano da dipendenti, tesserati, hanno poca mentalità. Io non vedevo l’ora di giocare; qualsiasi sia la superficie. Erba, terra, l’importante era scendere in campo e dare tutto. Ora non c’è più quella fame…”
Chiosa finale sulla pressione “esercitata” dall’Arechi: “Chiunque vive nel mondo del calcio vuole guadagnarci qualcosa economicamente, ma anche soddisfazioni personali. E per me una delle più belle rimane quella di aver giocato all’interno di uno stadio stracolmo, pieno di passione. Bisognerebbe cambiare la mentalità dei calciatori. Non essere solo di passaggio. Non bisogna pensare dove andare ad elemosinare un nuovo contratto, non l’ha detto mica il dottore di fare questo mestiere! Come si fa ad essere in soggezione perché giocano con 7mila tifosi presenti sugli spalti? La pressione, evidentemente, non sanno cosa è! Io, invece, ho sempre pensato che giocare con tante persone al seguito che fanno il tifo per me aiuta la mia squadra e non gli avversari che si sentono schiacciati psicologicamente. Devono essere loro, infatti, a non essere abituati, a non riuscire a dialogare con il compagno di squadra. Ora, invece, ci sono alcuni che vedono un po’ di pubblico e fingono infortuni perenni. Mi chiedo e allora che giochi a fare? Molti calciatori, in quelle condizioni, darebbero il 200% altri, invece, si fasciano la testa. Il ruolo di allenatore è diventato di un certo peso, così come è fondamentale avere uno staff preparato, pronto a cogliere ogni dettaglio. In B il campionato è molto lungo e faticoso, si gioca senza continuità di programmare l’allenamento, per questo avere una squadra forte tecnicamente potrebbe essere un malus se questa non ha precise garanzie fisiche e psicologiche”.
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